L'articolo uscito il 28 maggio 2014, a pagina 14 de "Il manifesto".
Strasburgo, fine corsa per le patrie galere?
Scade oggi l’anno concesso all’Italia per trasformare il
carcere in luogo di legalità. Il cronometro era scattato dopo la condanna a
Strasburgo per violazione del divieto di tortura, causata da un
sovraffollamento carcerario “Strutturale e sistemico”, denunciato da una marea
di ricorsi. Nei prossimi giorni conosceremo il verdetto su quanto fatto e non
fatto dalle autorità italiane. Previsioni?
Tracciamo il perimetro giuridico del problema. La condanna
nasceva dalla carenza di spazio in cella (sotto i tre metri quadrati a
detenuto). Un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario
italiano”, che impone “senza indugio” rimedi effettivi sia preventivi che
compensativi. Tutto il resto viene dopo.
Il Guardasigilli è
fiducioso. Le novità normative e le azioni amministrative realizzate, incidendo
sui flussi detentivi in entrata e in uscita, avrebbero ridotto la popolazione
carceraria a 59.500 unità. E’ stata attuata la riduzione dei circa 18.000
detenuti ristretti in uno spazio tra 3 e 4 mq, troppo vicino al margine
sanzionato a Strasburgo. E’ in corso un sistema che consente – con un clic sul
computer – di monitorare le condizioni di ogni detenuto, in ogni cella, in ogni
carcere.
Missione compiuta, dunque? Queste cifre sono oggetto di non
infondate contestazioni. Assumiamole, egualmente, per vere. Statisticamente,
forse, soddisferanno “un prosaico calcolo geometrico della sofferenza”
(Giostra). Restano tuttavia sopra la capienza regolamentare, che pure il
ministero stima assai generosamente in 48.300 posti.
Resta insoddisfatto l’obligo di introdurre adeguati rimedi
compensativi. Il governo pensa a indennizzi pecuniari ovvero a sconti di pena
per chi è ancora recluso. La monetizzazione di un trattamento inumano ha un che
di osceno ma è nella logica del risarcimento del danno. Più problematico, anche
alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, è l’altro rimedio ipotizzato:
perché l’art. 3 CEDU (divieto di tortura) non consente bilanciamenti di nessun
genere. Diversamente, ad esempio, dall’art. 6 CEDU (durata irragionevole del
processo), la cui violazione può compensarsi – come ha ammesso la Corte europea
– con una riduzione della successiva condanna.
E’ realistico,
allora, attendersi una proroga rispetto all’odierna scadenza. E non solo
come apprezzamento per quanto fatto dall’Italia, che è molto ma non abbastanza.
Dietro la sentenza-pilota di un anno fa c’è anche l’interesse della Corte
europea a non affogare in migliaia di ricorsi siamesi (ad oggi 6.829):
Strasburgo non può né deve né vuole trasformarsi in giudice di ultima istanza
per un paese – il nostro – incapace di rispettare lo standard minimo e non
incomprimibile di superficie dietro le sbarre.
Dovevamo pensarci prima. La sentenza Torreggiani nulla dice
che la politica non sapesse: già nella scorsa legislatura le Camere discussero
in seduta straordinaria il problema della condizione carceraria. Nella
legislatura attuale, serviva un tempestivo dibattito parlamentare del messaggio
presidenziale, parcheggiato invece per mesi. Serviva un atto di clemenza
generale imposto dalla straordinaria gravità della situazione: come richiesto –
inascoltati – da Quirinale, Consulta, Primo Presidente di Cassazione, e da un
Marco Pannella mai domo.
Si è scelto diversamente, a favore di un’aritmia normativa
che ci costringerà a giocare i tempi di recupero. Sapendo fin d’ora che,
adempiuto il giudicato europeo, saremmo ancora a metà dell’opera. Perché il
nostro orizzonte resta quello
costituzionale di una pena che deve tendere alla risocializzazione del
reo. Un orizzonte che non si misura soltanto in metri quadri.
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