Di Curzio Maltese.
Da La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani.
Gli spot della Chiesa cattolica sono per la maggior parte degli italiani l'unica fonte d'informazione sull'otto per mille. Ne conseguono una serie di pregiudizi diffusi. Credenti e non credenti sono convinti che la Chiesa cattolica usi i fondi dell'otto per mille soprattutto per la carità in Italia e nel Terzo mondo. Le due voci occupano il 90 per cento dei messaggi, ma costituiscono nella realtà soltanto il 20 per cento della spesa reale: l'80 per cento del miliardo di euro rimane alla Chiesa cattolica, per una serie di usi e destinazioni che le campagne pubblicitarie in genere non documentano.
Tanto meno, gli spot cattolici si occupano di informare che le quote non espresse nella dichiarazione dei redditi – il 60 per cento – sono comunque assegnate sulla base del 40 per cento di quanto è stato espresso e finiscono dunque al 90 per cento nelle casse della Cei. Questo compito, in effetti, spetterebbe allo Stato italiano. Lo Stato avrebbe avuto il dovere di illustrare e giustificare ai cittadini un meccanismo di "voto fiscale" unico al mondo. Inconcepibile non soltanto in nazioni in cui vige un ordinamento separatista fra Stato e Chiesa, come la Francia, ma anche nei paesi concordatari. In Spagna le quote non espresse nel "cinque per mille" rimangono allo Stato, come suggerirebbe la logica.
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Laici, Nonviolenti, Antiproibizionisti, Liberali, Federalisti
domenica 28 agosto 2011
lunedì 22 agosto 2011
La caduta di Tripoli, il futuro della Libia
Di Marco del Ciello.
Ieri sera gli insorti libici che fanno capo al National Transitional Council sono entrati a Tripoli, incontrando una debole resistenza. Secondo le ultime notizie disponibili, controllano la maggior parte della città e tutto lascia pensare che già nelle prossime ore potrebbero completare la conquista della capitale. Si pone quindi, a partire da oggi, il problema del futuro della Libia. Fare previsioni in questo campo è sempre molto difficile, ma i fatti degli ultimi mesi possono darci qualche indicazione utile in questo senso. Parlo solo degli ultimi mesi, perché per decenni questo paese è stato un oggetto misterioso, a causa del ferreo controllo del governo sull'informazione. Sapevamo che non si svolgevano elezioni, sapevamo che l'economia ruotava intorno alle esportazioni di gas e petrolio, sapevamo che la classe media era composta in prevalenza da funzionari dell'ampia burocrazia statale e sapevamo che Internet era molto poco diffuso. Qualcosa filtrava anche a proposito delle violazioni dei diritti umani e della persecuzione della minoranza berbera (su questo blog ci siamo occupati, ad esempio, della vicenda di Madghis Buzakhar), ma poco altro. Giudicando sulla base di queste scarse notizie, tutte vere, il futuro della Libia appariva cupo: non sembrava cioè che potesse esistere una classe dirigente alternativa al regime al potere. Difficile immaginare una rivolta, ancor più difficile pensare a un dopo Gheddafi che non fosse segnato da sanguinose guerre civili.
I fatti degli ultimi mesi hanno però smentito queste fosche previsioni: come avevamo anticipato, sempre su questo blog ('La rabbia e l'immigrazione'), il 17 febbraio la popolazione libica si è sollevata contro Gheddafi, seguendo il modello di Tunisia ed Egitto. Non solo, gli insorti sono stati capaci di mobilitare l'intera popolazione e di portare avanti la loro lotta per sei mesi, pur tra mille difficoltà. Abbiamo assistito inoltre a un utilizzo creativo e imprevedibile della rete per aggirare la censura (v. 'Libya's 'Love revolution': Muslim Dating Site Seeds Protest'). Ma la cosa più interessante per provare a indovinare i prossimi sviluppi è osservare il modo in cui il National Transitional Council è riuscito a costituire in pochi giorni un governo provvisorio capace di gestire la guerra e di mantenere l'ordine nella città di Bengasi e in tutta la regione della Cirenaica (v. 'Libya rebels isolate Gaddafi, seizing cities and oilfields', ma anche 'Benghazi blues'). Abbiamo infatti scoperto che esisteva un ceto di professionisti, soprattutto giudici e avvocati, pronti a governare con il consenso dei loro concittadini. Possiamo quindi noi, e possono soprattutto i libici, dormire sonni tranquilli? Purtroppo no: se il rischio peggiore, quello dell'anarchia, sembra almeno per il momento scongiurato, costruire o ricostruire istituzioni solide è un lavoro lungo, faticoso e dall'esito sempre incerto. Più preoccupante ancora è il fatto che la Libia si trova in un'area geografica politicamente molto instabile, stretta com'è tra Tunisia ed Egitto, e questo non può che influire negativamente sulle sue prospettive.
Una cosa è però certa: come europei non possiamo ignorare quanto sta succedendo in questi giorni a pochi chilometri dalle nostre coste. Storia, geografia e almeno tre questioni politiche chiave (immigrazione, energia, terrorismo) ci legano indissolubilmente agli abitanti del Nord Africa, arabi e berberi. In mancanza di un governo europeo e di una politica estera comune, tocca ora alle singole nazioni muoversi in ordine sparso e anche in questo caso, come per la crisi economica globale, si vedono bene tutti i limiti di un'Europa divisa, mentre per il momento possiamo solo immaginare le opportunità di cui godremmo con la federazione continentale che da sempre i radicali auspicano.
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Ieri sera gli insorti libici che fanno capo al National Transitional Council sono entrati a Tripoli, incontrando una debole resistenza. Secondo le ultime notizie disponibili, controllano la maggior parte della città e tutto lascia pensare che già nelle prossime ore potrebbero completare la conquista della capitale. Si pone quindi, a partire da oggi, il problema del futuro della Libia. Fare previsioni in questo campo è sempre molto difficile, ma i fatti degli ultimi mesi possono darci qualche indicazione utile in questo senso. Parlo solo degli ultimi mesi, perché per decenni questo paese è stato un oggetto misterioso, a causa del ferreo controllo del governo sull'informazione. Sapevamo che non si svolgevano elezioni, sapevamo che l'economia ruotava intorno alle esportazioni di gas e petrolio, sapevamo che la classe media era composta in prevalenza da funzionari dell'ampia burocrazia statale e sapevamo che Internet era molto poco diffuso. Qualcosa filtrava anche a proposito delle violazioni dei diritti umani e della persecuzione della minoranza berbera (su questo blog ci siamo occupati, ad esempio, della vicenda di Madghis Buzakhar), ma poco altro. Giudicando sulla base di queste scarse notizie, tutte vere, il futuro della Libia appariva cupo: non sembrava cioè che potesse esistere una classe dirigente alternativa al regime al potere. Difficile immaginare una rivolta, ancor più difficile pensare a un dopo Gheddafi che non fosse segnato da sanguinose guerre civili.
I fatti degli ultimi mesi hanno però smentito queste fosche previsioni: come avevamo anticipato, sempre su questo blog ('La rabbia e l'immigrazione'), il 17 febbraio la popolazione libica si è sollevata contro Gheddafi, seguendo il modello di Tunisia ed Egitto. Non solo, gli insorti sono stati capaci di mobilitare l'intera popolazione e di portare avanti la loro lotta per sei mesi, pur tra mille difficoltà. Abbiamo assistito inoltre a un utilizzo creativo e imprevedibile della rete per aggirare la censura (v. 'Libya's 'Love revolution': Muslim Dating Site Seeds Protest'). Ma la cosa più interessante per provare a indovinare i prossimi sviluppi è osservare il modo in cui il National Transitional Council è riuscito a costituire in pochi giorni un governo provvisorio capace di gestire la guerra e di mantenere l'ordine nella città di Bengasi e in tutta la regione della Cirenaica (v. 'Libya rebels isolate Gaddafi, seizing cities and oilfields', ma anche 'Benghazi blues'). Abbiamo infatti scoperto che esisteva un ceto di professionisti, soprattutto giudici e avvocati, pronti a governare con il consenso dei loro concittadini. Possiamo quindi noi, e possono soprattutto i libici, dormire sonni tranquilli? Purtroppo no: se il rischio peggiore, quello dell'anarchia, sembra almeno per il momento scongiurato, costruire o ricostruire istituzioni solide è un lavoro lungo, faticoso e dall'esito sempre incerto. Più preoccupante ancora è il fatto che la Libia si trova in un'area geografica politicamente molto instabile, stretta com'è tra Tunisia ed Egitto, e questo non può che influire negativamente sulle sue prospettive.
Una cosa è però certa: come europei non possiamo ignorare quanto sta succedendo in questi giorni a pochi chilometri dalle nostre coste. Storia, geografia e almeno tre questioni politiche chiave (immigrazione, energia, terrorismo) ci legano indissolubilmente agli abitanti del Nord Africa, arabi e berberi. In mancanza di un governo europeo e di una politica estera comune, tocca ora alle singole nazioni muoversi in ordine sparso e anche in questo caso, come per la crisi economica globale, si vedono bene tutti i limiti di un'Europa divisa, mentre per il momento possiamo solo immaginare le opportunità di cui godremmo con la federazione continentale che da sempre i radicali auspicano.
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domenica 21 agosto 2011
Gli stratagemmi ai quali la Chiesa ricorre per evitare accertamenti fiscali sono infiniti
Di Curzio Maltese.
Da La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani.
Gli stratagemmi ai quali la Chiesa ricorre per evitare accertamenti fiscali sono infiniti. Ecco un esempio. Nel marzo del 2007, per far fronte all'espansione del turismo religioso, la Cei ha organizzato nella capitale un megaconvegno intitolato Case per ferie, segno e luogo di speranza. Gli atti e gli interventi dei relatori, scaricabili dal sito ufficiale della Cei, compongono di fatto un eccellente corso di formazione professionale per operatori turistici, tenuto da esperti del ramo e commercialisti non solo molto preparati – come il noto fiscalista romano Aurelio Curina –, ma anche dotati di una capacità divulgativa singolare per la categoria. Una visita al sito è largamente consigliabile a qualsiasi laico titolare di un albergo, di una pensione, di un bar o di un ristorante che non voglia ammattire dietro alle formule barocche del "fiscalese".
Fra le varie relazioni, fitte di norme civilistico-fiscali, alla voce swiftiana Qualche modesto suggerimento per difendervi nel prossimo futuro da accertamenti Ici (anche retroattivi) compare all'improvviso un agile manualetto di elusione fiscale. Pieno di trovate ingegnose utili a mascherare l'esercizio commerciale del turismo con la pratica religiosa. Ai gestori di alberghi religiosi si ricorda che: "a) l'ospite deve riconoscere la piena condivisione degli ideali e delle regole di condotta della religione cristiana; b) l'ospite deve impegnarsi a rispettare gli orari di entrata e di uscita; c) la casa per ferie metta a disposizione degli ospiti e la propria struttura e il proprio personale religioso per un'assistenza religiosa oltre l'annessa cappella" e così via.
Non importa, attenzione!, che le regole si rispettino davvero. Conta soltanto enunciarle, in modo da scansare gli accertamenti Ici. Quando alle Brigidine in piazza Farnese ho chiesto se avrei dovuto rispettare un regolamento interno, oppure orari particolari, o ancora partecipare a funzioni religiose – dal momento che non sono osservante –, la risposta della suora alle reception è stata un sorriso e la consegna della chiave del portone: "Torni pure all'ora che vuole".
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Da La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani.
Gli stratagemmi ai quali la Chiesa ricorre per evitare accertamenti fiscali sono infiniti. Ecco un esempio. Nel marzo del 2007, per far fronte all'espansione del turismo religioso, la Cei ha organizzato nella capitale un megaconvegno intitolato Case per ferie, segno e luogo di speranza. Gli atti e gli interventi dei relatori, scaricabili dal sito ufficiale della Cei, compongono di fatto un eccellente corso di formazione professionale per operatori turistici, tenuto da esperti del ramo e commercialisti non solo molto preparati – come il noto fiscalista romano Aurelio Curina –, ma anche dotati di una capacità divulgativa singolare per la categoria. Una visita al sito è largamente consigliabile a qualsiasi laico titolare di un albergo, di una pensione, di un bar o di un ristorante che non voglia ammattire dietro alle formule barocche del "fiscalese".
Fra le varie relazioni, fitte di norme civilistico-fiscali, alla voce swiftiana Qualche modesto suggerimento per difendervi nel prossimo futuro da accertamenti Ici (anche retroattivi) compare all'improvviso un agile manualetto di elusione fiscale. Pieno di trovate ingegnose utili a mascherare l'esercizio commerciale del turismo con la pratica religiosa. Ai gestori di alberghi religiosi si ricorda che: "a) l'ospite deve riconoscere la piena condivisione degli ideali e delle regole di condotta della religione cristiana; b) l'ospite deve impegnarsi a rispettare gli orari di entrata e di uscita; c) la casa per ferie metta a disposizione degli ospiti e la propria struttura e il proprio personale religioso per un'assistenza religiosa oltre l'annessa cappella" e così via.
Non importa, attenzione!, che le regole si rispettino davvero. Conta soltanto enunciarle, in modo da scansare gli accertamenti Ici. Quando alle Brigidine in piazza Farnese ho chiesto se avrei dovuto rispettare un regolamento interno, oppure orari particolari, o ancora partecipare a funzioni religiose – dal momento che non sono osservante –, la risposta della suora alle reception è stata un sorriso e la consegna della chiave del portone: "Torni pure all'ora che vuole".
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mercoledì 17 agosto 2011
Perché non temere l'amnistia
Di Giulia Crivellini.
'Il sovraffollamento nelle carceri rappresenta un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile'. Così ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del convegno di fine luglio organizzato dai radicali. Nel frattempo qualche cosa si è mosso. Già, perché al consueto appuntamento estivo del Ferragosto in carcere quest'anno hanno aderito ben 2000 persone, oltre ad un consistente numero di parlamentari, consiglieri e figure istituzionali. L'urgenza, infatti, è divenuta oggi sinonimo di insostenibilità. Non solo sul piano della dignità (minima!) da garantire a ciascun individuo, ma altresì su quello della dignità di uno Stato che deve recuperare spazi di legalità, per 'tornare ad essere in qualche misura democratico'.
Se un barlume di luce è stato fatto, le soluzioni, però, sembrano vagare nell'oscurità. I radicali dicono forte e chiaro: amnistia! Il filo da tirare per arrivare a riforme complessive in tema giustizia. Il neo-arrivato Guardasigilli risponde: nessuna amnistia; piuttosto depenalizzazione dei reati minori, revisione dei meccanismi di custodia preventiva e avanti col 'piano carceri'. Dietro, l'eco di un'opinione pubblica che non ritiene sufficiente la misura suggerita da Pannella, in parte celando il timore di un'ondata di criminali in giro per le strade.
A questo punto, un'opera di verità si rende necessaria. Sì, perché l'amnistia ha un significato ben preciso, che deve essere conosciuto per poter esserne riconosciuta la validità. In primis, amnistia significa cura per uno Stato con febbre a quaranta. Per un malato che ha l'aspirina a portata di mano non solo è inutile, ma può essere addirittura mortale attendere mesi prima che i medici trovino l'antibiotico. Mi si dirà: allevia, ma non cura. E poi: racchiude un morbo, perché usciranno indiscriminatamente tanti criminali. E qui si entra nel cuore della questione: la portata 'emergenziale' di questo strumento è rafforzata da una valenza fortemente strutturale. Non solo porta sollievo al nostro Stato 'umiliato' (cit. Napolitano) e al lavoro dei magistrati, i quali si vedrebbero ridotti i processi penali a un milione e mezzo dai quattro e mezzo pendenti, ma anticipa quelle stesse riforme strutturali da tanti richiamate. Le anticipa perché, come istituto delineato dal diritto penale, le contiene in se stesso.
L'amnistia, infatti, non viene concessa a mo' di indulgenza o carità, ma deve seguire dei criteri precisi, collegati agli anni ancora da scontare oppure alla tipologia di reato. Si potrebbe, ad esempio, far rientrare nel suddetto provvedimento tutti quei reati considerati 'minori', o perché senza vittima o perché non più avvertiti come tali dalla società (c. d. 'inutili'). Ma, soprattutto, si potrebbero far rientrare quelle 'emergenze sociali', quali le tossicodipendenze e l'immigrazione, che non sono riuscite a trovare, sino ad oggi, adeguate soluzioni di politica (appunto) sociale, e che per questo vengono relegate nel dimenticatoio carcerario.
Insomma, perché fare domani (e quando?) misure di depenalizzazione di reati che già oggi, proprio con questa misura, possono essere prese? Consideriamo, poi, che non si tratterebbe solo di alleviare le condizioni dei tanti, troppi, malati di giustizia, ma di permettere e costringere la classe politica ad intervenire davvero. Risulterebbe, così, essere l'anestesia che crea quell'arco temporale indispensabile e irrinunciabile ad ogni intervento. È su questo terreno che la politica deve giocare la sfida. Se continuare a percorrere la strada delle promesse e della non-credibilità, divenendo ogni giorno più fragile, oppure, invece, decidere di dare un segnale serio ed immediato. E questo segnale ha un solo nome: amnistia.
www.radicalisenzafissadimora.org
'Il sovraffollamento nelle carceri rappresenta un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile'. Così ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del convegno di fine luglio organizzato dai radicali. Nel frattempo qualche cosa si è mosso. Già, perché al consueto appuntamento estivo del Ferragosto in carcere quest'anno hanno aderito ben 2000 persone, oltre ad un consistente numero di parlamentari, consiglieri e figure istituzionali. L'urgenza, infatti, è divenuta oggi sinonimo di insostenibilità. Non solo sul piano della dignità (minima!) da garantire a ciascun individuo, ma altresì su quello della dignità di uno Stato che deve recuperare spazi di legalità, per 'tornare ad essere in qualche misura democratico'.
Se un barlume di luce è stato fatto, le soluzioni, però, sembrano vagare nell'oscurità. I radicali dicono forte e chiaro: amnistia! Il filo da tirare per arrivare a riforme complessive in tema giustizia. Il neo-arrivato Guardasigilli risponde: nessuna amnistia; piuttosto depenalizzazione dei reati minori, revisione dei meccanismi di custodia preventiva e avanti col 'piano carceri'. Dietro, l'eco di un'opinione pubblica che non ritiene sufficiente la misura suggerita da Pannella, in parte celando il timore di un'ondata di criminali in giro per le strade.
A questo punto, un'opera di verità si rende necessaria. Sì, perché l'amnistia ha un significato ben preciso, che deve essere conosciuto per poter esserne riconosciuta la validità. In primis, amnistia significa cura per uno Stato con febbre a quaranta. Per un malato che ha l'aspirina a portata di mano non solo è inutile, ma può essere addirittura mortale attendere mesi prima che i medici trovino l'antibiotico. Mi si dirà: allevia, ma non cura. E poi: racchiude un morbo, perché usciranno indiscriminatamente tanti criminali. E qui si entra nel cuore della questione: la portata 'emergenziale' di questo strumento è rafforzata da una valenza fortemente strutturale. Non solo porta sollievo al nostro Stato 'umiliato' (cit. Napolitano) e al lavoro dei magistrati, i quali si vedrebbero ridotti i processi penali a un milione e mezzo dai quattro e mezzo pendenti, ma anticipa quelle stesse riforme strutturali da tanti richiamate. Le anticipa perché, come istituto delineato dal diritto penale, le contiene in se stesso.
L'amnistia, infatti, non viene concessa a mo' di indulgenza o carità, ma deve seguire dei criteri precisi, collegati agli anni ancora da scontare oppure alla tipologia di reato. Si potrebbe, ad esempio, far rientrare nel suddetto provvedimento tutti quei reati considerati 'minori', o perché senza vittima o perché non più avvertiti come tali dalla società (c. d. 'inutili'). Ma, soprattutto, si potrebbero far rientrare quelle 'emergenze sociali', quali le tossicodipendenze e l'immigrazione, che non sono riuscite a trovare, sino ad oggi, adeguate soluzioni di politica (appunto) sociale, e che per questo vengono relegate nel dimenticatoio carcerario.
Insomma, perché fare domani (e quando?) misure di depenalizzazione di reati che già oggi, proprio con questa misura, possono essere prese? Consideriamo, poi, che non si tratterebbe solo di alleviare le condizioni dei tanti, troppi, malati di giustizia, ma di permettere e costringere la classe politica ad intervenire davvero. Risulterebbe, così, essere l'anestesia che crea quell'arco temporale indispensabile e irrinunciabile ad ogni intervento. È su questo terreno che la politica deve giocare la sfida. Se continuare a percorrere la strada delle promesse e della non-credibilità, divenendo ogni giorno più fragile, oppure, invece, decidere di dare un segnale serio ed immediato. E questo segnale ha un solo nome: amnistia.
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martedì 16 agosto 2011
I nodi al pettine
Di Giulia Cortese.
L'Italia, e più in generale l'Europa, sta attraversando tempi durissimi. La crisi attuale è paragonabile alla ben nota catastrofe del 1929, del crollo di Wall Street. Come siamo arrivati a questo punto? Non è più tanto importante stabilire se è nata prima la gallina o prima l’uovo, se cioè la colpa dell’attuale declino del sistema-Italia sia attribuibile alla sola classe politica, o coinvolga strati molto più ampi del paese. Quello che sembra certo è che la classe politica debba ora tentare un recupero di credibilità 'in extremis', una di quelle operazioni che innescano, nei pubblici e privati quel 'circolo virtuoso' di cui abbiamo disperatamente bisogno.
Il governo italiano è costretto ad agire in tempi rapidissimi, eppure anche di questi tempi assistiamo a degli 'spettacoli' che di certo non sono un modo per risolvere i nostri guai. Continuano ad arrivare sia a livello del governo locale, che del governo centrale, segnali fortemente negativi, e si moltiplicano le denunce di abusi, sprechi e clientele. Da sessant'anni, ossia da quando è nata la Repubblica italiana, il Parlamento ha inoltre manifestato una fama incessante di sedi, aggregati, dépendance, e sfoghi edilizi in cui collocare le sue propaggini. Secondo la Confindustria, una politica 'costosa e senza progetto', affidata a 179 mila eletti, costa ai cittadini 4 miliardi di euro l'anno. Seppure coscienti del discredito che li avvolge, i nostri politici evitano di auto-correggersi. Tanti autorevoli esponenti della politica hanno protestato contro i privilegi e gli sprechi, e lo hanno fatto anche svariate volte. In passato la predicazione è sempre rimasta tale, non si è certo tradotta in misure rigorose. I numerosi sforzi già compiuti per indurre la politica a essere più sobria, ad alleviare gli oneri che essa scarica sui cittadini, a rendere più trasparente il modo in cui viene gestito il denaro dei contribuenti, non hanno ottenuto risultati rilevanti. C'è stata magari qualche leggera sforbiciata temporanea, tanto per alleviare il malcontento diffuso, ma nulla più di questo.
L'impressione è che i 'marpioni della politica' si apprestino, ancora una volta, a star buoni per un po'. Ma per quanto, ancora? Quanto a noi cittadini italiani, saremo tutti costretti a subire tagli di deduzioni, detrazioni e sconti fiscali previsti per il 2013 e 2014. Una famiglia media potrebbe ritrovarsi a dover pagare mille euro di tasse in più in due anni. Ironia della sorte? Nel '94 Silvio Berlusconi, leader del PdL, ha combattuto la sua campagna elettorale sulla base di un programma che prometteva di abbassare il carico fiscale. Cosa si sia fatto poi di queste promesse non si sa. Tutto questo di cui si è detto pone a chi oggi deve chiedere sacrifici agli italiani un obbligo morale: chi chiede sacrifici ai cittadini, qualche sacrificio dovrà farlo pure lui. Questo per dimostrare di voler dare davvero un taglio a una condotta che appare sempre più insopportabile e ingestibile per le casse dello stato. Vale per il Palazzo, lo stato centrale, gli enti locali. Serve davvero una svolta, perché i cittadini non perdano del tutto la fiducia nelle Istituzioni.
Oggi come oggi l'Italia non si può certo permettere quello sperpero di denaro pubblico che c'è stato sotto i nostri occhi finora, e la diffusa tendenza a escludere l'entrata dei giovani dalle professioni da parte di caste professionali, le quali difendono con forza le loro rendite di posizione. Se in passato si fossero fatte quelle liberalizzazioni necessarie per lo sviluppo economico del paese, ora non sarebbe necessaria questa deriva statalista. Si è dormito troppo a lungo, si è aspettato che la situazione degenerasse prima di reagire. Il fatto è che notoriamente in Italia pagano sempre i soliti noti, ovvero la categoria a reddito fisso, mentre a farla franca sono moltissimi autonomi e più in generale, chi usufruisce di rendite finanziarie. L'unica alternativa alla cosiddetta 'macelleria sociale' sembra essere una qualche forma di patrimoniale, ancora da definirsi. Questo per evitare che venga unicamente penalizzata la piccola e media borghesia a reddito fisso.
Quanto alle tasse, una volta passata la bufera, più che un aumento è necessaria una drastica riduzione. Sarebbe un modo per affamare la bestia politico-burocratica, causa principale del malessere del nostro paese.
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L'Italia, e più in generale l'Europa, sta attraversando tempi durissimi. La crisi attuale è paragonabile alla ben nota catastrofe del 1929, del crollo di Wall Street. Come siamo arrivati a questo punto? Non è più tanto importante stabilire se è nata prima la gallina o prima l’uovo, se cioè la colpa dell’attuale declino del sistema-Italia sia attribuibile alla sola classe politica, o coinvolga strati molto più ampi del paese. Quello che sembra certo è che la classe politica debba ora tentare un recupero di credibilità 'in extremis', una di quelle operazioni che innescano, nei pubblici e privati quel 'circolo virtuoso' di cui abbiamo disperatamente bisogno.
Il governo italiano è costretto ad agire in tempi rapidissimi, eppure anche di questi tempi assistiamo a degli 'spettacoli' che di certo non sono un modo per risolvere i nostri guai. Continuano ad arrivare sia a livello del governo locale, che del governo centrale, segnali fortemente negativi, e si moltiplicano le denunce di abusi, sprechi e clientele. Da sessant'anni, ossia da quando è nata la Repubblica italiana, il Parlamento ha inoltre manifestato una fama incessante di sedi, aggregati, dépendance, e sfoghi edilizi in cui collocare le sue propaggini. Secondo la Confindustria, una politica 'costosa e senza progetto', affidata a 179 mila eletti, costa ai cittadini 4 miliardi di euro l'anno. Seppure coscienti del discredito che li avvolge, i nostri politici evitano di auto-correggersi. Tanti autorevoli esponenti della politica hanno protestato contro i privilegi e gli sprechi, e lo hanno fatto anche svariate volte. In passato la predicazione è sempre rimasta tale, non si è certo tradotta in misure rigorose. I numerosi sforzi già compiuti per indurre la politica a essere più sobria, ad alleviare gli oneri che essa scarica sui cittadini, a rendere più trasparente il modo in cui viene gestito il denaro dei contribuenti, non hanno ottenuto risultati rilevanti. C'è stata magari qualche leggera sforbiciata temporanea, tanto per alleviare il malcontento diffuso, ma nulla più di questo.
L'impressione è che i 'marpioni della politica' si apprestino, ancora una volta, a star buoni per un po'. Ma per quanto, ancora? Quanto a noi cittadini italiani, saremo tutti costretti a subire tagli di deduzioni, detrazioni e sconti fiscali previsti per il 2013 e 2014. Una famiglia media potrebbe ritrovarsi a dover pagare mille euro di tasse in più in due anni. Ironia della sorte? Nel '94 Silvio Berlusconi, leader del PdL, ha combattuto la sua campagna elettorale sulla base di un programma che prometteva di abbassare il carico fiscale. Cosa si sia fatto poi di queste promesse non si sa. Tutto questo di cui si è detto pone a chi oggi deve chiedere sacrifici agli italiani un obbligo morale: chi chiede sacrifici ai cittadini, qualche sacrificio dovrà farlo pure lui. Questo per dimostrare di voler dare davvero un taglio a una condotta che appare sempre più insopportabile e ingestibile per le casse dello stato. Vale per il Palazzo, lo stato centrale, gli enti locali. Serve davvero una svolta, perché i cittadini non perdano del tutto la fiducia nelle Istituzioni.
Oggi come oggi l'Italia non si può certo permettere quello sperpero di denaro pubblico che c'è stato sotto i nostri occhi finora, e la diffusa tendenza a escludere l'entrata dei giovani dalle professioni da parte di caste professionali, le quali difendono con forza le loro rendite di posizione. Se in passato si fossero fatte quelle liberalizzazioni necessarie per lo sviluppo economico del paese, ora non sarebbe necessaria questa deriva statalista. Si è dormito troppo a lungo, si è aspettato che la situazione degenerasse prima di reagire. Il fatto è che notoriamente in Italia pagano sempre i soliti noti, ovvero la categoria a reddito fisso, mentre a farla franca sono moltissimi autonomi e più in generale, chi usufruisce di rendite finanziarie. L'unica alternativa alla cosiddetta 'macelleria sociale' sembra essere una qualche forma di patrimoniale, ancora da definirsi. Questo per evitare che venga unicamente penalizzata la piccola e media borghesia a reddito fisso.
Quanto alle tasse, una volta passata la bufera, più che un aumento è necessaria una drastica riduzione. Sarebbe un modo per affamare la bestia politico-burocratica, causa principale del malessere del nostro paese.
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domenica 14 agosto 2011
Questa è la storia completa delle Mie Prigioni
Di Henry David Thoureau.
Da La disobbedienza civile.
Non pagai la tassa di voto per sei anni. Anzi, una volta passai una notte intera in prigione proprio per questo.
Fu un'esperienza abbastanza nuova e interessante. Quando entrai, i detenuti stavano sulla porta, in maniche di camicia, a fare quattro chiacchiere e godersi l'aria della sera. Ma il secondino disse: «Su, ragazzi, è ora di chiudere» e si dispersero. Sentii i loro passi rimbombare nelle celle. Il secondino mi presentò il mio compagno di stanza come «un tipo in gamba, un uomo capace». Quando la porta fu chiusa, costui mi mostrò dove dovevo appendere il cappello e come in genere se la cavava là dentro. Le stanze venivano imbiancate una volta al mese; e almeno questa dov'ero era la più bianca, la più semplicemente ammobiliata e forse anche la più linda di tutta la città. Naturalmente, l'uomo volle sapere da dove venivo e cosa mi avesse portato in carcere. Glielo dissi e gli chiesi a mia volta come lui fosse finito in quel luogo immaginando, naturalmente, che fosse un onest'uomo; e, visto come vanno le cose, credo proprio che lo fosse.
«Mah» disse. «Mi accusano di avere incendiato un granaio; mica l'ho fatto, però.» Da quanto potei capire e immaginare, doveva essere andato a dormire in un granaio, ubriaco, fumando la pipa; e il granaio aveva preso fuoco. Aveva reputazione di uomo capace; stava là da circa tre mesi, in attesa del processo, e doveva aspettarne altrettanti, ma ormai s'era completamente adattato alla situazione e persino ne era contento: mangiava e dormiva gratis, e (come credeva) era trattato bene.
Ci mettemmo lui a una finestra e io all'altra. Capii che, a restare in prigione a lungo, l'occupazione principale sarebbe stata quella di guardare dalla finestra. In poco tempo lessi tutti gli opuscoli lasciati nella cella ed esaminai i luoghi dai quali alcuni prigionieri erano evasi e doveva era sta aggiunta un'inferriata; e ascoltai le storie dei vari abitanti di questa stanza. Scoprii che anche qui c'era una storia e c'erano pettegolezzi ma non oltrepassavano le mura. Probabilmente, questa è la sola casa della città dove si scrivano versi, stampati perché circolino là dentro ma mai pubblicati. Mi fu mostrata una lunga lista di poesie composte da certi giovanotti scoperti mentre tentavano la fuga e che s'erano vendicati cantandole.
Spremetti più informazioni che potei dal mio compagno di cella perché temevo di non rivederlo un'altra volta; alla fine mi indicò il mio letto e mi lasciò a spegnere la candela.
Stare lì per una notte era come viaggiare in un Paese lontano che non avessi mai pensato di potere ammirare. Mi pareva di non aver mai udito l'orologio municipale battere le ore prima di allora, né i rumori del villaggio a sera, poiché dormimmo con le finestre spalancate che erano aldiquà delle sbarre. Era come vedessi il villaggio dove sono nato in un'aura medievale, il nostro fiume Concord come il Reno, mentre visioni di cavalieri e castelli mi passavano davanti agli occhi. Erano le voci dei borghesi di un tempo quelle che udivo nelle strade, spettatore e ascoltatore involontario di tutto ciò che veniva fatto e detto nella cucina della adiacente locanda. Anche quest'esperienza era completamente nuova e rara, per me, una visione più ravvicinata della mia città, le stavo proprio nel cuore, non ne avevo mai visto le istituzioni, prima di allora. Questa del carcere è un'istituzione particolare poiché la nostra cittadina è capoluogo di contea. Cominciai a capire di cosa s'occupassero i suoi abitanti.
La mattina ci passarono la colazione attraverso un buco nella porta ed era in gamellette di latta, oblunghe e quadrate, fatte in modo da poter passare per quel pertugio. La colazione consisteva in una pinta di cioccolata e pane nero; ci dettero anche un cucchiaio di ferro. Quando ci chiesero di restituire i recipienti, fui tanto ingenuo da restituire anche il pane che non avevo mangiato ma il mio compagno fu svelto a prenderlo spiegandomi che dovevo conservarlo per il pranzo e la cena. Poco dopo, uscì per andare al lavoro (falciava il fieno in un campo vicino) come faceva ogni giorno: non sarebbe ritornato prima di mezzodì. Così mi augurò il buon giorno dicendo che dubitava di rivedermi.
Quando uscii di prigione – qualcuno si intromise e pagò l'imposta per me – non mi parve che fossero avvenuti grandi cambiamenti nella pubblica piazza, come invece era successo a quel tale che era entrato in prigione da giovane e ne era uscito vacillante e canuto; e tuttavia, per me, un mutamento c'era stato, su quella scena – la città, lo Stato, il Paese – e più grande di qualsiasi altro provocato dal mero scorrere del tempo. Vedevo più chiaramente lo Stato nel quale vivevo. Vedevo fino a che punto le persone tra le quali vivevo potevano essere considerate buoni vicini e buoni amici; mi resi conto che la loro amicizia durava solo nella buona stagione e non si affannavano oltremodo per la giustizia; che, per i loro pregiudizi e le loro superstizioni, appartenevano a una razza completamente diversa dalla mia, come i cinesi o i malesi; che nei loro sacrifici per l'umanità non correvano nessun rischio, né nella persona né nella proprietà; che dopotutto, non erano tanto nobili, ma trattavano il ladro nella stessa maniera in cui il ladro li trattava; e che speravano di salvarsi l'anima con un certo conformismo esteriore e poche preghiere – camminando, di tanto in tanto, lungo un certo qual sentiero, diritto ma inutile. Può darsi che stia giudicando i miei vicini severamente; credo che molti di loro non sappiano che c'è l'istituzione della prigione, nel nostro villaggio.
Un tempo, qui, quando un povero debitore usciva di galera, i conoscenti lo salutavano guardandolo attraverso le dita delle mani incrociate come delle sbarre e gli chiedevano: «Come va?». I miei vicini non mi salutarono così: ma prima guardarono me e poi si guardarono tra di loro, quasi fossi ritornato da un lungo viaggio. Mi avevano messo in prigione che stavo andando dal calzolaio a ritirare una scarpa che m'ero fatta accomodare. Il mattino dopo, quando uscii, eseguii la mia commissione e, infilatami la scarpa aggiustata, mi unii a un gruppo di persone che andavano per sorbe e che erano impazienti di mettersi sotto la mia guida. Il cavallo fu presto bardato e attaccato al carretto e mezz'ora dopo ero in un campo di sorbe, su uno dei nostri colli più alti, a due miglia dalla città, e lo Stato non si poteva vederlo da nessuna parte.
Questa è la storia completa delle Mie Prigioni.
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Da La disobbedienza civile.
Non pagai la tassa di voto per sei anni. Anzi, una volta passai una notte intera in prigione proprio per questo.
Fu un'esperienza abbastanza nuova e interessante. Quando entrai, i detenuti stavano sulla porta, in maniche di camicia, a fare quattro chiacchiere e godersi l'aria della sera. Ma il secondino disse: «Su, ragazzi, è ora di chiudere» e si dispersero. Sentii i loro passi rimbombare nelle celle. Il secondino mi presentò il mio compagno di stanza come «un tipo in gamba, un uomo capace». Quando la porta fu chiusa, costui mi mostrò dove dovevo appendere il cappello e come in genere se la cavava là dentro. Le stanze venivano imbiancate una volta al mese; e almeno questa dov'ero era la più bianca, la più semplicemente ammobiliata e forse anche la più linda di tutta la città. Naturalmente, l'uomo volle sapere da dove venivo e cosa mi avesse portato in carcere. Glielo dissi e gli chiesi a mia volta come lui fosse finito in quel luogo immaginando, naturalmente, che fosse un onest'uomo; e, visto come vanno le cose, credo proprio che lo fosse.
«Mah» disse. «Mi accusano di avere incendiato un granaio; mica l'ho fatto, però.» Da quanto potei capire e immaginare, doveva essere andato a dormire in un granaio, ubriaco, fumando la pipa; e il granaio aveva preso fuoco. Aveva reputazione di uomo capace; stava là da circa tre mesi, in attesa del processo, e doveva aspettarne altrettanti, ma ormai s'era completamente adattato alla situazione e persino ne era contento: mangiava e dormiva gratis, e (come credeva) era trattato bene.
Ci mettemmo lui a una finestra e io all'altra. Capii che, a restare in prigione a lungo, l'occupazione principale sarebbe stata quella di guardare dalla finestra. In poco tempo lessi tutti gli opuscoli lasciati nella cella ed esaminai i luoghi dai quali alcuni prigionieri erano evasi e doveva era sta aggiunta un'inferriata; e ascoltai le storie dei vari abitanti di questa stanza. Scoprii che anche qui c'era una storia e c'erano pettegolezzi ma non oltrepassavano le mura. Probabilmente, questa è la sola casa della città dove si scrivano versi, stampati perché circolino là dentro ma mai pubblicati. Mi fu mostrata una lunga lista di poesie composte da certi giovanotti scoperti mentre tentavano la fuga e che s'erano vendicati cantandole.
Spremetti più informazioni che potei dal mio compagno di cella perché temevo di non rivederlo un'altra volta; alla fine mi indicò il mio letto e mi lasciò a spegnere la candela.
Stare lì per una notte era come viaggiare in un Paese lontano che non avessi mai pensato di potere ammirare. Mi pareva di non aver mai udito l'orologio municipale battere le ore prima di allora, né i rumori del villaggio a sera, poiché dormimmo con le finestre spalancate che erano aldiquà delle sbarre. Era come vedessi il villaggio dove sono nato in un'aura medievale, il nostro fiume Concord come il Reno, mentre visioni di cavalieri e castelli mi passavano davanti agli occhi. Erano le voci dei borghesi di un tempo quelle che udivo nelle strade, spettatore e ascoltatore involontario di tutto ciò che veniva fatto e detto nella cucina della adiacente locanda. Anche quest'esperienza era completamente nuova e rara, per me, una visione più ravvicinata della mia città, le stavo proprio nel cuore, non ne avevo mai visto le istituzioni, prima di allora. Questa del carcere è un'istituzione particolare poiché la nostra cittadina è capoluogo di contea. Cominciai a capire di cosa s'occupassero i suoi abitanti.
La mattina ci passarono la colazione attraverso un buco nella porta ed era in gamellette di latta, oblunghe e quadrate, fatte in modo da poter passare per quel pertugio. La colazione consisteva in una pinta di cioccolata e pane nero; ci dettero anche un cucchiaio di ferro. Quando ci chiesero di restituire i recipienti, fui tanto ingenuo da restituire anche il pane che non avevo mangiato ma il mio compagno fu svelto a prenderlo spiegandomi che dovevo conservarlo per il pranzo e la cena. Poco dopo, uscì per andare al lavoro (falciava il fieno in un campo vicino) come faceva ogni giorno: non sarebbe ritornato prima di mezzodì. Così mi augurò il buon giorno dicendo che dubitava di rivedermi.
Quando uscii di prigione – qualcuno si intromise e pagò l'imposta per me – non mi parve che fossero avvenuti grandi cambiamenti nella pubblica piazza, come invece era successo a quel tale che era entrato in prigione da giovane e ne era uscito vacillante e canuto; e tuttavia, per me, un mutamento c'era stato, su quella scena – la città, lo Stato, il Paese – e più grande di qualsiasi altro provocato dal mero scorrere del tempo. Vedevo più chiaramente lo Stato nel quale vivevo. Vedevo fino a che punto le persone tra le quali vivevo potevano essere considerate buoni vicini e buoni amici; mi resi conto che la loro amicizia durava solo nella buona stagione e non si affannavano oltremodo per la giustizia; che, per i loro pregiudizi e le loro superstizioni, appartenevano a una razza completamente diversa dalla mia, come i cinesi o i malesi; che nei loro sacrifici per l'umanità non correvano nessun rischio, né nella persona né nella proprietà; che dopotutto, non erano tanto nobili, ma trattavano il ladro nella stessa maniera in cui il ladro li trattava; e che speravano di salvarsi l'anima con un certo conformismo esteriore e poche preghiere – camminando, di tanto in tanto, lungo un certo qual sentiero, diritto ma inutile. Può darsi che stia giudicando i miei vicini severamente; credo che molti di loro non sappiano che c'è l'istituzione della prigione, nel nostro villaggio.
Un tempo, qui, quando un povero debitore usciva di galera, i conoscenti lo salutavano guardandolo attraverso le dita delle mani incrociate come delle sbarre e gli chiedevano: «Come va?». I miei vicini non mi salutarono così: ma prima guardarono me e poi si guardarono tra di loro, quasi fossi ritornato da un lungo viaggio. Mi avevano messo in prigione che stavo andando dal calzolaio a ritirare una scarpa che m'ero fatta accomodare. Il mattino dopo, quando uscii, eseguii la mia commissione e, infilatami la scarpa aggiustata, mi unii a un gruppo di persone che andavano per sorbe e che erano impazienti di mettersi sotto la mia guida. Il cavallo fu presto bardato e attaccato al carretto e mezz'ora dopo ero in un campo di sorbe, su uno dei nostri colli più alti, a due miglia dalla città, e lo Stato non si poteva vederlo da nessuna parte.
Questa è la storia completa delle Mie Prigioni.
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sabato 13 agosto 2011
Contro le province
Di Marco del Ciello.
I provvedimenti annunciati dal Governo proprio in queste ore hanno riaperto un dibattito antico quanto la Repubblica. Risale infatti addirittura alla Costituente il primo confronto pubblico sull'opportunità di abolire le province. Vedremo se, almeno questa volta, alle parole seguiranno anche i fatti, ma vale la pena di ricapitolare i motivi per cui le province andrebbero non solo diminuite nel numero, come si propone il Governo, ma proprio eliminate.
Tutte le funzioni attualmente affidate alle province potrebbero essere svolte in modo più efficiente o dalle regioni o dai comuni: le regioni infatti hanno le dimensioni (e le conseguenti risorse) per affrontare i problemi più complessi, mentre i comuni hanno la sensibilità e la vicinanza necessarie per risolvere le questioni più minute. Ci sono due casi in cui i comuni non sono in grado di svolgere al meglio le loro funzioni e alle province tocca ricoprire un ruolo di supplenza: quando sono troppo grandi oppure quando sono troppi piccoli. Nel primo caso il nostro ordinamento prevede già due soluzioni complementari: le aree metropolitane per coordinare le attività con i più piccoli comuni limitrofi; le circoscrizioni, o municipi, per mantenere un rapporto diretto con i cittadini. Nel secondo caso la strada maestra da seguire è quella di accorpare i comuni più piccoli fino a raggiungere la massa critica necessaria; una strada che è già stata sperimentata con buoni risultati in Lombardia, la regione che più soffre di questo particolare problema.
Il costo monetario che le province impongono ai cittadini italiani è trascurabile, se rapportato alle dimensioni complessive del bilancio dello Stato, e si riduce in buona sostanza a stipendi e gettoni di presenza di assessori e consiglieri. Si stima che si collochi tra uno e due miliardi di euro all'anno. Lo stesso discorso non vale, però, per i costi decisionali, ovvero la burocrazia. Attualmente, ogni volta che deve essere presa una decisione che interessi un territorio appena più ampio di quello del singolo comune, devono essere coinvolte nel processo decisionale non solo la regione competente, ma anche la o le province che su quel territorio esercitano la propria giurisdizione. Il che si traduce in votazioni che devono avere luogo anche nelle giunte e nei consigli provinciali, oltre che in quelle comunali e regionali, con tutto ciò che ne consegue in termini di tempi e di ritardi sull'approvazione dei provvedimenti. E soprattutto con la difficoltà per il cittadino di attribuire correttamente le responsabilità ai politici coinvolti, per sapere anche chi punire e chi premiare al momento del voto. Si vedano, ad esempio, i casi dell'alta velocità ferroviaria in Val di Susa o della gestione dei rifiuti a Napoli, dove rimane oscura la distribuzione delle competenze.
In definitiva, possiamo sintetizzare così i principali vantaggi dell'abolizione delle province: significativa riduzione del numero di persone che vivono di politica; meno burocrazia; decisioni politiche più rapide; maggiore trasparenza nel processo decisionale.
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I provvedimenti annunciati dal Governo proprio in queste ore hanno riaperto un dibattito antico quanto la Repubblica. Risale infatti addirittura alla Costituente il primo confronto pubblico sull'opportunità di abolire le province. Vedremo se, almeno questa volta, alle parole seguiranno anche i fatti, ma vale la pena di ricapitolare i motivi per cui le province andrebbero non solo diminuite nel numero, come si propone il Governo, ma proprio eliminate.
Tutte le funzioni attualmente affidate alle province potrebbero essere svolte in modo più efficiente o dalle regioni o dai comuni: le regioni infatti hanno le dimensioni (e le conseguenti risorse) per affrontare i problemi più complessi, mentre i comuni hanno la sensibilità e la vicinanza necessarie per risolvere le questioni più minute. Ci sono due casi in cui i comuni non sono in grado di svolgere al meglio le loro funzioni e alle province tocca ricoprire un ruolo di supplenza: quando sono troppo grandi oppure quando sono troppi piccoli. Nel primo caso il nostro ordinamento prevede già due soluzioni complementari: le aree metropolitane per coordinare le attività con i più piccoli comuni limitrofi; le circoscrizioni, o municipi, per mantenere un rapporto diretto con i cittadini. Nel secondo caso la strada maestra da seguire è quella di accorpare i comuni più piccoli fino a raggiungere la massa critica necessaria; una strada che è già stata sperimentata con buoni risultati in Lombardia, la regione che più soffre di questo particolare problema.
Il costo monetario che le province impongono ai cittadini italiani è trascurabile, se rapportato alle dimensioni complessive del bilancio dello Stato, e si riduce in buona sostanza a stipendi e gettoni di presenza di assessori e consiglieri. Si stima che si collochi tra uno e due miliardi di euro all'anno. Lo stesso discorso non vale, però, per i costi decisionali, ovvero la burocrazia. Attualmente, ogni volta che deve essere presa una decisione che interessi un territorio appena più ampio di quello del singolo comune, devono essere coinvolte nel processo decisionale non solo la regione competente, ma anche la o le province che su quel territorio esercitano la propria giurisdizione. Il che si traduce in votazioni che devono avere luogo anche nelle giunte e nei consigli provinciali, oltre che in quelle comunali e regionali, con tutto ciò che ne consegue in termini di tempi e di ritardi sull'approvazione dei provvedimenti. E soprattutto con la difficoltà per il cittadino di attribuire correttamente le responsabilità ai politici coinvolti, per sapere anche chi punire e chi premiare al momento del voto. Si vedano, ad esempio, i casi dell'alta velocità ferroviaria in Val di Susa o della gestione dei rifiuti a Napoli, dove rimane oscura la distribuzione delle competenze.
In definitiva, possiamo sintetizzare così i principali vantaggi dell'abolizione delle province: significativa riduzione del numero di persone che vivono di politica; meno burocrazia; decisioni politiche più rapide; maggiore trasparenza nel processo decisionale.
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domenica 7 agosto 2011
Conoscere per deliberare
Di Luigi Einaudi.
Da Prediche inutili.
«La soluzione si trascina»; «il problema, una volta posto, deve essere risoluto»; «urge, non si può tardare ad affrontare la questione». Chi legga queste e simiglianti sentenze pensa: perché il governo, perché il parlamento, perché il ministro competente, tardano tanto? Codesti frettolosi non riflettono: è questo davvero non uno dei tanti, ma il problema; e come accade che di volta in volta, ogni giorno diversi, tanti siano i problemi urgenti, dei quali la soluzione non può farsi attendere senza danno, anzi senza grave danno? Perché è così lungo l'elenco dei problemi urgenti; e così corto quello degli scritti nei quali sia chiaramente chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere?
Nulla, tuttavia, repugna più della conoscenza a molti, forse a troppi di coloro che sono chiamati a risolvere problemi. [...] come se le soluzioni non maturate e non ragionate non partorissero necessariamente nuovi grovigli e rinnovate urgenze di porre rimedio a peggiori mali.
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Da Prediche inutili.
«La soluzione si trascina»; «il problema, una volta posto, deve essere risoluto»; «urge, non si può tardare ad affrontare la questione». Chi legga queste e simiglianti sentenze pensa: perché il governo, perché il parlamento, perché il ministro competente, tardano tanto? Codesti frettolosi non riflettono: è questo davvero non uno dei tanti, ma il problema; e come accade che di volta in volta, ogni giorno diversi, tanti siano i problemi urgenti, dei quali la soluzione non può farsi attendere senza danno, anzi senza grave danno? Perché è così lungo l'elenco dei problemi urgenti; e così corto quello degli scritti nei quali sia chiaramente chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere?
Nulla, tuttavia, repugna più della conoscenza a molti, forse a troppi di coloro che sono chiamati a risolvere problemi. [...] come se le soluzioni non maturate e non ragionate non partorissero necessariamente nuovi grovigli e rinnovate urgenze di porre rimedio a peggiori mali.
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sabato 6 agosto 2011
Cambiare la Costituzione per essere più liberi?
Di Marco del Ciello.
L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
(Art. 41 Cost.)
Ieri sera il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro dell'Economia Giulio Tremonti hanno tenuto una conferenza stampa per annunciare quattro proposte di politica economica. Una di queste consiste nella modifica dell'articolo 41 della Costituzione. Secondo gli esponenti del Governo, infatti, la formulazione di questo articolo impedirebbe di realizzare qualsiasi misura di liberalizzazione e di semplificazione burocratica a vantaggio delle imprese. Ma è davvero così? Il primo comma riconosce semplicemente la libertà di iniziativa economica privata, per cui non comporta problemi. I due commi successivi introducono, invece, due ordini di limitazioni a questa libertà.
Ma di che limiti si tratta? Secondo il comma 2, l'attività economica non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale: una formulazione generica che difficilmente può essere invocata in un giudizio di costituzionalità. Il comma pone come altri paletti la sicurezza, la libertà e la dignità umana. E non si vede perché a un privato (ma anche allo Stato) dovrebbe essere permesso di attentare alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e cosa c'entri questo con le liberalizzazioni e la semplificazione burocratica. L'ultimo comma, infine, affida al legislatore il compito di coordinare e indirizzare l'attività economica pubblica e privata a fini sociali. In pratica, il documento di programmazione economica e finanziaria (dpef), che non mi sembra abbia mai rappresentato una seria minaccia alla libertà di iniziativa economica.
Se il Governo e il Parlamento rispettassero lo spirito e la lettera di questo articolo, noi oggi vivremmo nel paradiso del libero mercato. Forse sarebbe ora di cominciare ad applicarla questa Costituzione, cari ministri, prima di proporre modifiche strampalate.
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L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
(Art. 41 Cost.)
Ieri sera il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro dell'Economia Giulio Tremonti hanno tenuto una conferenza stampa per annunciare quattro proposte di politica economica. Una di queste consiste nella modifica dell'articolo 41 della Costituzione. Secondo gli esponenti del Governo, infatti, la formulazione di questo articolo impedirebbe di realizzare qualsiasi misura di liberalizzazione e di semplificazione burocratica a vantaggio delle imprese. Ma è davvero così? Il primo comma riconosce semplicemente la libertà di iniziativa economica privata, per cui non comporta problemi. I due commi successivi introducono, invece, due ordini di limitazioni a questa libertà.
Ma di che limiti si tratta? Secondo il comma 2, l'attività economica non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale: una formulazione generica che difficilmente può essere invocata in un giudizio di costituzionalità. Il comma pone come altri paletti la sicurezza, la libertà e la dignità umana. E non si vede perché a un privato (ma anche allo Stato) dovrebbe essere permesso di attentare alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e cosa c'entri questo con le liberalizzazioni e la semplificazione burocratica. L'ultimo comma, infine, affida al legislatore il compito di coordinare e indirizzare l'attività economica pubblica e privata a fini sociali. In pratica, il documento di programmazione economica e finanziaria (dpef), che non mi sembra abbia mai rappresentato una seria minaccia alla libertà di iniziativa economica.
Se il Governo e il Parlamento rispettassero lo spirito e la lettera di questo articolo, noi oggi vivremmo nel paradiso del libero mercato. Forse sarebbe ora di cominciare ad applicarla questa Costituzione, cari ministri, prima di proporre modifiche strampalate.
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