Di Henry David Thoureau.
Da La disobbedienza civile.
Non pagai la tassa di voto per sei anni. Anzi, una volta passai una notte intera in prigione proprio per questo.
Fu un'esperienza abbastanza nuova e interessante. Quando entrai, i detenuti stavano sulla porta, in maniche di camicia, a fare quattro chiacchiere e godersi l'aria della sera. Ma il secondino disse: «Su, ragazzi, è ora di chiudere» e si dispersero. Sentii i loro passi rimbombare nelle celle. Il secondino mi presentò il mio compagno di stanza come «un tipo in gamba, un uomo capace». Quando la porta fu chiusa, costui mi mostrò dove dovevo appendere il cappello e come in genere se la cavava là dentro. Le stanze venivano imbiancate una volta al mese; e almeno questa dov'ero era la più bianca, la più semplicemente ammobiliata e forse anche la più linda di tutta la città. Naturalmente, l'uomo volle sapere da dove venivo e cosa mi avesse portato in carcere. Glielo dissi e gli chiesi a mia volta come lui fosse finito in quel luogo immaginando, naturalmente, che fosse un onest'uomo; e, visto come vanno le cose, credo proprio che lo fosse.
«Mah» disse. «Mi accusano di avere incendiato un granaio; mica l'ho fatto, però.» Da quanto potei capire e immaginare, doveva essere andato a dormire in un granaio, ubriaco, fumando la pipa; e il granaio aveva preso fuoco. Aveva reputazione di uomo capace; stava là da circa tre mesi, in attesa del processo, e doveva aspettarne altrettanti, ma ormai s'era completamente adattato alla situazione e persino ne era contento: mangiava e dormiva gratis, e (come credeva) era trattato bene.
Ci mettemmo lui a una finestra e io all'altra. Capii che, a restare in prigione a lungo, l'occupazione principale sarebbe stata quella di guardare dalla finestra. In poco tempo lessi tutti gli opuscoli lasciati nella cella ed esaminai i luoghi dai quali alcuni prigionieri erano evasi e doveva era sta aggiunta un'inferriata; e ascoltai le storie dei vari abitanti di questa stanza. Scoprii che anche qui c'era una storia e c'erano pettegolezzi ma non oltrepassavano le mura. Probabilmente, questa è la sola casa della città dove si scrivano versi, stampati perché circolino là dentro ma mai pubblicati. Mi fu mostrata una lunga lista di poesie composte da certi giovanotti scoperti mentre tentavano la fuga e che s'erano vendicati cantandole.
Spremetti più informazioni che potei dal mio compagno di cella perché temevo di non rivederlo un'altra volta; alla fine mi indicò il mio letto e mi lasciò a spegnere la candela.
Stare lì per una notte era come viaggiare in un Paese lontano che non avessi mai pensato di potere ammirare. Mi pareva di non aver mai udito l'orologio municipale battere le ore prima di allora, né i rumori del villaggio a sera, poiché dormimmo con le finestre spalancate che erano aldiquà delle sbarre. Era come vedessi il villaggio dove sono nato in un'aura medievale, il nostro fiume Concord come il Reno, mentre visioni di cavalieri e castelli mi passavano davanti agli occhi. Erano le voci dei borghesi di un tempo quelle che udivo nelle strade, spettatore e ascoltatore involontario di tutto ciò che veniva fatto e detto nella cucina della adiacente locanda. Anche quest'esperienza era completamente nuova e rara, per me, una visione più ravvicinata della mia città, le stavo proprio nel cuore, non ne avevo mai visto le istituzioni, prima di allora. Questa del carcere è un'istituzione particolare poiché la nostra cittadina è capoluogo di contea. Cominciai a capire di cosa s'occupassero i suoi abitanti.
La mattina ci passarono la colazione attraverso un buco nella porta ed era in gamellette di latta, oblunghe e quadrate, fatte in modo da poter passare per quel pertugio. La colazione consisteva in una pinta di cioccolata e pane nero; ci dettero anche un cucchiaio di ferro. Quando ci chiesero di restituire i recipienti, fui tanto ingenuo da restituire anche il pane che non avevo mangiato ma il mio compagno fu svelto a prenderlo spiegandomi che dovevo conservarlo per il pranzo e la cena. Poco dopo, uscì per andare al lavoro (falciava il fieno in un campo vicino) come faceva ogni giorno: non sarebbe ritornato prima di mezzodì. Così mi augurò il buon giorno dicendo che dubitava di rivedermi.
Quando uscii di prigione – qualcuno si intromise e pagò l'imposta per me – non mi parve che fossero avvenuti grandi cambiamenti nella pubblica piazza, come invece era successo a quel tale che era entrato in prigione da giovane e ne era uscito vacillante e canuto; e tuttavia, per me, un mutamento c'era stato, su quella scena – la città, lo Stato, il Paese – e più grande di qualsiasi altro provocato dal mero scorrere del tempo. Vedevo più chiaramente lo Stato nel quale vivevo. Vedevo fino a che punto le persone tra le quali vivevo potevano essere considerate buoni vicini e buoni amici; mi resi conto che la loro amicizia durava solo nella buona stagione e non si affannavano oltremodo per la giustizia; che, per i loro pregiudizi e le loro superstizioni, appartenevano a una razza completamente diversa dalla mia, come i cinesi o i malesi; che nei loro sacrifici per l'umanità non correvano nessun rischio, né nella persona né nella proprietà; che dopotutto, non erano tanto nobili, ma trattavano il ladro nella stessa maniera in cui il ladro li trattava; e che speravano di salvarsi l'anima con un certo conformismo esteriore e poche preghiere – camminando, di tanto in tanto, lungo un certo qual sentiero, diritto ma inutile. Può darsi che stia giudicando i miei vicini severamente; credo che molti di loro non sappiano che c'è l'istituzione della prigione, nel nostro villaggio.
Un tempo, qui, quando un povero debitore usciva di galera, i conoscenti lo salutavano guardandolo attraverso le dita delle mani incrociate come delle sbarre e gli chiedevano: «Come va?». I miei vicini non mi salutarono così: ma prima guardarono me e poi si guardarono tra di loro, quasi fossi ritornato da un lungo viaggio. Mi avevano messo in prigione che stavo andando dal calzolaio a ritirare una scarpa che m'ero fatta accomodare. Il mattino dopo, quando uscii, eseguii la mia commissione e, infilatami la scarpa aggiustata, mi unii a un gruppo di persone che andavano per sorbe e che erano impazienti di mettersi sotto la mia guida. Il cavallo fu presto bardato e attaccato al carretto e mezz'ora dopo ero in un campo di sorbe, su uno dei nostri colli più alti, a due miglia dalla città, e lo Stato non si poteva vederlo da nessuna parte.
Questa è la storia completa delle Mie Prigioni.
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