Da Un uomo al Castello.
Non credo che nella mia vita si possa trovare una separazione netta tra il periodo in cui non mi interessavo di politica e il periodo durante il quale invece me ne sono occupato. In qualche misura mi sono sempre occupato di politica e della cosa pubblica, e in qualche misura sono sempre stato – anche come semplice scrittore – un fenomeno politico. Nei regimi totalitari va così, tutto è politica, anche un concerto rock. La differenza stava naturalmente nel tipo di conseguenza politica che derivava dalle mie azioni o nella loro evidenza: è andato in un modo negli anni Sessanta e in un altro negli anni Ottanta. Da questo punto di vista, l'unico momento veramente di rottura nella mia vita è stato quando ho deciso, nel novembre 1989, di accettare la candidatura alla Presidenza. Allora non si trattava più del semplice contraccolpo politico di quel che facevo, bensì di una funzione politica, con tutto ciò che comportava. Ho esitato fino all'ultimo istante.
Ero preoccupato. Era qualcosa di completamente nuovo. Non mi ero preparato all'incarico dalla scuola elementare, come fanno i presidenti americani. Su un cambiamento di vita così radicale ho dovuto decidere praticamente in poche ore. Alla fine ha vinto l'appello alla responsabilità proveniente da chi mi stava vicino: mi dissero esattamente le stesse cose che successivamente avrei ripetuto tante volte agli altri, quando li invitavo a far politica, cioè che non si può passare la vita a criticare qualcosa e poi, quando si ha la possibilità di dimostrare come farla meglio, ci si tira indietro. Era un appello accompagnato anche dalla convinzione che nella situazione rivoluzionaria in cui ci si trovava, era l'unica soluzione possibile, perché se improvvisamente – come figura centrale degli avvenimenti – mi fossi rifiutato di accettare le conseguenze delle mie precedenti azioni, avrei reso vani tutti i nostri sforzi, sarebbe stato come sputare in faccia a tutti gli altri.
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