Molti se l’aspettavano, molti altri l’auspicavano. Dal 2
maggio, giorno del discorso pronunciato a Strasburgo dal Presidente della
Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, si era capito quale sarebbe stata la
strada per consentire al Governo di evitare di battersi, contro un Parlamento
che ha dimostrato di non essere interessato nemmeno a discuterne, per il varo
di provvedimenti di amnistia e indulto.
D’altra parte, il Presidente del Consiglio non è mai sembrato
interessato alla questione. Appena eletto segretario del Partito Democratico
nominò una responsabile giustizia che si premurò di annunciare immediatamente
che amnistia e indulto non erano nell’orizzonte del partito.
In Parlamento, nel Governo e (purtroppo) negli organi di
informazione, stenta a farsi strada la percezione del fatto che infliggere
trattamenti inumani e degradanti ai detenuti nelle carceri, è una violazione
dei diritti umani fondamentali. Diritti che sono patrimonio di ciascun essere
umano, anche del peggior delinquente; diritti che si fondano su principi che
fanno della cultura europea – che ha permeato di sé l’occidente – una civiltà
di cui andare fieri.
La proroga di un anno concessa dal Consiglio d’Europa all’Italia, non
aiuterà certo questa riflessione. E non rafforzerà certo la richiesta radicale
di dimissioni del Presidente Matteo Renzi. Forse oggi il problema non è nemmeno
più quello della giustizia. Forse oggi si dovrebbero chiamare le donne e gli
uomini di buona volontà a ritrovare quelle radici liberali, democratiche e del
socialismo utopistico e umanitario, che sembrano ormai disseccate.
Per dire a tutti che amnistia e indulto non sono “clemenza”
ma opportunità di rigenerazione per la Repubblica.
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