lunedì 9 giugno 2014

Dolce morte, pratica consolidata. Parla un altro medico.

Dall'intervista comparsa a pag. 13 de "LA STAMPA" del 9 giugno

a Giuseppe Maria Saba, già Ordinario di Anestesiologia e Rianimazione presso le Università di Caglari e di Roma "La Sapienza"

Io, medico, ho aiutato a morire un centinaio di pazienti gravi


Da anestesista ho addormentato migliaia di persone, in un centinaio di casi sono andato oltre.

L’ho fatto ogni volta che era necessario, ma non ho un elenco. Non mi sono mai pentito, anche perché erano i pazienti a chiedermi di intervenire. In tutte le situazioni non c’era altra via di uscita.

Tutti si stupiscono di questo metodo, ma il vero problema è che in Italia ancora non si è capito cos’è il dolore. Nessuno lo ha studiato, in pochi sanno quali sono le differenze e che cosa lo determina, Col dolore non c’è medicina che tenga.

La cosa più importante è fare il bene del malato, aiutarlo a morire soffrendo il meno possibile. Spesso i pazienti restano abbandonati a sé stessi negli ospedali, sottoposti a terapie inutili, lunghissime e anche molto costose.

Quali sono i modi per praticare la dolce morte?
Il più semplice è quello di aumentare la dose degli analgesici. Somministrare una quantità superiore si morfina di certo non è reato, ma può bastare. Altra possibilità è quella di somministrare un farmaco che blocca la respirazione: le bensodiazepine sono le più venute al mondo.


Questa è una pratica consolidata in tutta Italia, ma per ragioni di conformismo non se ne parla. Gli unici che alzano la voce sono gli esponenti di frange dell’estremismo cattolico, rigido e confuso. Parlo ora perché non ne posso più del silenzio su cose che sappiamo tutti. 

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