lunedì 3 gennaio 2011

Capitali americani. Una strada pericolosa

Di Ernesto Rossi.
Da Il Mondo del 2 marzo 1954.

In questi ultimi tempi, si è ripreso a discutere sui sistemi migliori per rendere possibile un maggiore afflusso in Europa di capitali privati americani. Non volendo dare altri aiuti ai governi europei, al di fuori di quelli previsti per gli armamenti, e non riuscendo a vincere le resistenze che incontra ogni proposta di ridurre la protezione doganale, per consentire agli europei di procurarsi i dollari, di cui hanno bisogno, vendendo una quantità maggiore di merci agli Stati Uniti, il governo di Washington da diversi mesi cerca di spingere su questa strada; per ora, però, con scarsissimi risultati. I banchieri americani non si fidano: la situazione politica nel nostro continente non è affatto tranquilla, in confronto ai pericoli di espropriazioni, convulsioni sociali, rivoluzioni e guerre, ed i governi europei, volendo mantenere il controllo sui cambi, non sono disposti a dare ai capitalisti americani garanzie sufficienti di poter, in qualsiasi momento, quando lo desiderino, trasformare in dollari e ritirare in America i dividendi, gli interessi, ed anche i loro capitali.
Sul Corriere della Sera del 18 febbraio scorso è comparso un ottimo articolo, in cui il prof. Bresciani Turroni, con la consueta chiarezza, ha spiegato quali vantaggi possono ritrarre i paesi poveri dall'afflusso di capitali dei paesi più ricchi. In genere si può dire che, aumentando le disponibilità di materie prime e di strumenti tecnici, quest'afflusso accresce le possibilità di impiego della mano d'opera e la produttività del lavoro, sicché la ricchezza dei paesi debitori ne risulta accresciuta, anche quando venga calcolata al netto dai disinvestimenti e dal compenso ai capitalisti stranieri. Basta ricordare quale conributo diede il capitale straniero allo sviluppo dell'economia italiana fino alla prima guerra mondiale per avere la più convincente conferma di questa teoria.
Io, però, ho scarsa fiducia - in un mondo impazzito come il mondo in cui oggi viviamo - l'afflusso di capitali stranieri possa ancora apportare i benefici che dava quando i prestiti e gli scambi internazionali eran conclusi fra privati, guidati esclusivamente dal loro tornaconto, le monete erano senza difficoltà convertibili l'una nelle altre, il gold standard manteneva automaticamente le oscillazioni dei cambi entro i punti dell'oro, e nessun governo si sognava neppure di «congelare» i crediti esteri e di far pagare le esportazioni ai contribuenti per meglio «vendere senza comperare».

A me sembra oggi molto difficile che si possano sopprimere tutte le limitazioni al trasferimento dei profitti dei capitali americani in Italia - come propone Bresciani Turroni - senza contemporaneamente smantellare la intera farraginosa nostra macchina burocratica per il controllo sui cambi. Siamo disposti a questo? Dio lo volesse, ma ma ne dubito assai, e temo che - se mantenessimo ancora in funzione quella macchina - gli investimenti privati americani in Italia costituirebbero una ragione di maggiori difficoltà e di maggiori attriti, invece di condurre ad una più stretta cooperazione economica fra l'America e il nostro paese.
Ed ho anche altri timori più gravi.
Il primo è che il nostro governo, per aumentare l'incentivo agli investimenti americani, conceda delle agevolazioni fiscali che, in pratica, servano soltanto a rendere più facile la evasione dalle imposte ai nostri grandi industriali. Non dovremmo dimenticare, a questo proposito, l'esperienza fatta col decreto 6 dicembre 1937, n. 2375, che aveva pure la stessa giustificazione di voler attirare i capitali stranieri in Italia. I nostro grandi industriali emisero all'estero i titoli delle loro società per farli poi rientrare col beneficio del trattamento fiscale di favore.

«Nei provvedimenti di concessione delle esenzioni fiscali venivano previste sanzioni a carico delle società emittenti di obbligazioni all'estero, nel caso che contravvenissero al divieto di far circolare in Italia i titoli in parola - si legge, a pagina 72, del Rapporto sui problemi monetari della Commissione economica all'Assemblea Costituente (Roma, 1946). - Ma è pure avvenuto che molti cittadini in Italia hanno acquistato queste obbligazioni ed il Fisco non ha potuto prendere alcun provvedimento a carico delle società emittenti, che erano rimaste completamente estranee all'abusivo rientro dei titoli nel paese».

Il secondo timore è che, sempre per aumentare l'incentivo agli investimenti esteri, il nostro governo garantisca direttamente o indirettamente, la loro produttività. In tale caso molto facilmente esso vorrebbe anche scegliere i gruppi industriali che meritano la garanzia, e - come il solito - questa scelta sarebbe poi fatta con criteri politici (cioè per disporre di nuove fonti di finanziamento a vantaggio di certi giornali e di certi partiti e per addomesticare gli oppositori), piuttosto che con criteri economici. In tutti i modi, i risultati di questa politica sarebbero che gli americani si porterebbero via i profitti, se le industrie andassero bene, e scaricherebbero sui contribuenti italiani le perdite, se andassero male. È un gioco in cui si sono già da un pezzo specializzati i nostri capitalisti. Non ci conviene aggiungere agli specialisti nostrani in questa materia gli specialisti stranieri.

Infine c'è da temere che i banchieri americani, seguendo l'esempio dei banchieri italiani, preferiscano, per i loro investimenti, alle industrie sane - che meglio corrispondono alle condizioni ambientali, alla posizione geografica e alle particolari capacità del popolo italiano - le grandi industrie monopolistiche e parassitarie, che, per «ragioni sociali», sono ormai completamente al riparo da ogni rischio di fallimento e che danno maggiore sicurezza di reddito, perché possono sfruttare i consumatori nazionali dietro le trincee della politica autarchica, con gli innumerevoli privilegi loro assicurati dal governo (licenze di importazioni, premi di esportazione, esenzioni tributarie, contributi a carico del Tesoro, consorzi obbligatori, credito di favore, forniture statali a prezzi maggiorati, concessioni di sfruttamento delle acque pubbliche, ecc. ecc.). Se ciò avvenisse, gli investimenti americani in Italia, invece di rafforzare la nostra economia, contribuirebbero a distorcerla da quello che sarebbe il suo naturale sviluppo in regime di libera concorrenza, consoliderebbero ancora di più la posizione degli attuali «baroni» della industria italiana, interessando all'aumento della loro potenza i capitalisti americani, ed accrescerebbero gli ostacoli, che già incontra il faticoso processo di unificazione dei mercati europei nella resistenza dei gruppi parassitari incrostati attorno ai tronchi degli Stati nazionali.
Non vorrei essere frainteso. Con i dubbi e i timori sopra esposti non voglio dire che la strada dei prestiti privati americani sia da rifiutare senz'altro. Intendo solo affermare che non è più una strada piana, sicura, quale era una volta. Se si procedesse senza le necessarie cautele, invece di alleggerire i nostri mali, potremmo anche aggravarli.

www.radicalisenzafissadimora.org

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